“Il libro dell’incontro”
Recensione - intervista
Guido Bertagna,
Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato (a cura di), Il libro dell’incontro – Vittime e responsabili della lotta armata a
confronto, Il Saggiatore, 2015, pp. 466
Ci sono libri belli, importanti, e ce ne sono alcuni addirittura
necessari. È il caso de “Il libro dell’incontro”, che racconta un punto di
svolta fondamentale nella nostra percezione degli “anni di piombo”. Ancora oggi
a quel periodo sono dedicati saggi, film, documentari, trasmissioni televisive
e approfondimenti giornalistici, e si può dire che sia una pagina non conclusa
della storia, sia per il permanere di vaste zone zona d’ombra su alcune delle
sue pagine più drammatiche, sia per il fatto che molti dei suoi protagonisti
sono ancora in vita e portano dentro di sé il peso di quell’esperienza. E
questo avviene tanto per le vittime e le loro famiglie, quanto per chi ha
premuto materialmente il grilletto o ha comunque militato nei gruppi eversivi.
Vittime e carnefici, si potrebbe dire in un’estrema e rozza semplificazione:
due gruppi che, nell’immaginario collettivo, hanno incrociato drammaticamente
la propria esistenza e parrebbero destinati a non incontrarsi mai più, portando
ognuno il proprio fardello interiore.
Non solo. A tanti anni di distanza, nella nostra società si
percepiscono palpabilmente due spinte che potremmo definire uguali e contrarie:
da un lato, il desiderio mai sopito di conoscenza e di approdare a verità
definitive su un periodo tanto complesso e tormentato, dall’altro un
progressivo oblio, una tendenza alla dimenticanza, alla comoda “archiviazione”,
soprattutto nelle generazioni nate dopo quegli anni.
Ecco, quindi, la necessità e l’importanza di questo testo. “Il libro
dell’incontro” racconta, infatti, di un nuovo ritrovarsi tra alcune vittime e una
parte dei responsabili della lotta armata, avvenuto con l’aiuto di tre
mediatori: il padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la
giurista Claudio Mazzuccato, che sono anche i curatori di questo volume, che ne
racconta e ricostruisce il difficile percorso. È un testo denso, ricco
soprattutto a livello emotivo: la parte introduttiva è una sorta di “diario di
bordo”, poi si lascia spazio alle “voci” dei protagonisti, volutamente anonime,
mescolate. A volte sono pensieri brevissimi, ma ogni singola parola è intensa,
sofferta, e penetra nell’anima ad aprire spazi di riflessione e ripensamento. A
chiudere, alcuni interventi tra i quali, interessantissimo, il capitolo
dedicato ai “Primi ponti di dialogo”, scritto da Franco Bonisoli e Agnese Moro.
“Il libro dell’incontro” è indubbiamente un volume che arricchisce
moltissimo a livello umano, offre un contributo importantissimo a livello
storico e civico, nel senso più nobile e pregnante del termine, essendo
portatore di un sofferto messaggio di dialogo che trae esempio dal Sud Africa
del post-apartheid e opera in direzione della “ricomposizione della frattura”.
Perché la giustizia più autentica deve cercare di sanare le ferite e non può e
non deve limitarsi alla mera applicazione di una pena, nella speranza di
riuscire ad avere un passato e, quindi, un futuro realmente condivisi.
“Atmosfere Letterarie” ha il privilegio di poter dialogare su “Il
libro dell’incontro” con uno dei protagonisti di questa iniziativa, il Dottor
Giovanni Ricci, figlio dell’Appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci, Medaglia
d’Oro al Valor Civile, caduto a Roma, in via Fani, il 16 marzo 1978, quando
venne rapito l’On. Aldo Moro.
Dottor Ricci, ci parli un po’ di sé…
Nasco a Roma il 27 aprile 1966.
Figlio di Domenico e Maria Laura Rocchetti. Ho un fratello di nome Paolo, più
piccolo, ma è lui il vero saggio della mia famiglia.
La mia vita subisce un terribile
destino, quando, felice 11enne, trucidano mio padre a via Fani il 16 marzo
1978. Un destino che segnerà per sempre la mia vita e quella della mia
famiglia.
Passo la mia adolescenza e il
mio primo periodo da “uomo” con tanta rabbia in corpo per quello che “mi ha
reso diverso dagli amici e dai compagni di vita e lavoro”.
Voglio capire il perché e studio
Sociologia e Criminologia e alla fine capisco. Capisco che l’odio ti rende
sempre più cieco e allora, dopo la nascita di Domenico, mio figlio, ecco la
decisione che solo “L’Incontro” ti potrebbe rendere libero. Conoscere per
pacificarsi e riconciliarsi.
Certamente la mia ricerca della
verità su quanto accadde a mio padre va avanti, è una strada diversa ma
compatibile con la prima perché anche questa porta verso una tranquillità
dell’animo che debbo a mio figlio, ai figli degli ex ed alle future
generazioni: ma soprattutto lo debbo alla mia mamma Maria Laura che ora non c’è
più, fiaccata dalle sofferenze e dal dolore, ma che è stata la persona che mi
ha indicato “La via della Pace”.
Veniamo proprio dalla figura di Domenico Ricci. Chi era e che ricordo
conserva di Lui?
Per prima cosa voglio dire che
Domenico Ricci era un papà, il mio papà. Un uomo unico di cui conservo ricordi
netti ed indelebili. Un uomo che amava la sua famiglia ed il prossimo. Ecco,
questo terrei che fosse preso in grande considerazione: dietro la divisa di
Carabiniere c’era un uomo con tutte le sue peculiarità, ma anche i suoi
difetti.
Domenico Ricci nasce il 18
settembre 1934, a Staffolo piccolo Comune in provincia di Ancona, un paese dove
all’alternativa di una vita lavorativa nei campi si poteva optare per
l’arruolamento nelle Forze Armate o di Polizia e mio padre optò proprio per
quest’ultima, avendo già il proprio fratello Giuseppe arruolato nell’Arma dei
Carabinieri. Così nel 1954 si arruola e frequenta la Scuola Allievi Carabinieri
a Torino. Dopo 12 mesi viene inviato a Roma per l’elevata capacità nella guida
di motociclette e auto ed inviato al nucleo Radiomobile della Capitale. Qui
viene notato per la sue capacità nella “guida veloce” e già nel 1958 assegnato
all’Onorevole Aldo Moro, allora Ministro della Pubblica Istruzione. Promosso al
grado di appuntato nel 1965 era per anzianità di servizio con il Presidente
Moro il più veterano della scorta.
Cosa ricorda di quel drammatico 16 marzo e dei giorni che seguirono?
Conosceva anche gli altri uomini della scorta?
Quel 16 marzo del 1978 è
impresso indelebilmente nella mia mente, avevo quasi 12 anni e quella mattina
eravamo in casa io e mia mamma. A causa delle poche aule disponibili nelle
scuole medie e superiori si facevano i doppi turni e io dopo tre giorni di
mattina quel giovedì sarei entrato alle 13.
Alle 9,30 circa una telefonata
di una conoscente avvertiva mia madre che la radio aveva dato notizie circa qualcosa
accaduto all’On. Moro e alla sua scorta, chiedendo contestualmente notizie se
mio padre fosse in servizio. Immediatamente accendemmo anche noi la nostra
radio e la televisione e trapelarono le prime frammentarie notizie; intanto la
nostra casa cominciò a riempirsi di gente e le lacrime scorrevano a fiotti su
tutti i visi. C’era una tenue speranza, perché i media parlarono di un agente
ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma. Alle 13 arrivò un generale dei
Carabinieri che purtroppo confermava che tutti i componenti della scorta erano
morti. La disperazione prese il posto dell’angoscia e il dolore ci lacerò
tutti.
Lo Stato, secondo Lei, è stato vicino alle famiglie delle vittime? E,
quando lo ha fatto, lo ha fatto nel modo giusto?
Lo Stato ci è stato vicino i
primi tempi, ma poi, come succede inevitabilmente anche per i nostri cari che
vengono a mancare, il tempo allontana. Si pensi che la prima protolegislazione
sulle vittime del terrorismo è datata 1997 e la legge che istituisce “Norme in
favore delle Vittime del Terrorismo e delle Stragi”, la legge 206, è del 2004.
Ricordo comunque un momento per me felice quando l’allora Presidente della
Repubblica Sandro Pertini ci fece avere per la Befana del 1980 un intero sacco
di giocattoli. Pertini era un Presidente che sapeva capire, nonostante il ruolo
istituzionale, l’importanza della famiglia e lui ci fu vicino come un papà.
L’Arma dei Carabinieri, invece, ha mantenuto un contatto costante con la nostra
famiglia, ci è sempre stata accanto.
Sull’agguato di via Fani e sulla prigionia di Moro persistono molti
lati oscuri o, comunque, non del tutto chiariti. Che idea si è fatta della
vicenda? Si riuscirà mai a giungere a una ricostruzione attendibile di ciò che
è accaduto?
Sul cosiddetto “Affaire Moro” si è scritto tanto, anzi tantissimo; sei
processi, due Commissioni bicamerali d’inchiesta (di cui una in atto oggi) e
due Commissioni Stragi non sono bastati a chiarire tutto. Ci sono ancora dei
punti oscuri. Io, per mio conto, sono sicuro che la verità sia nota al 90% ma
ci sono ancora dei punti bui legati ad alcune reticenze brigatiste e alle
lacune delle varie inchieste giudiziarie. Poche verità mancanti che potrebbero
consegnare alla Storia quella vicenda, che invece ancora oggi viene alimentata
dai tanti misteri che puntualmente compaiono o dalle varie teorie complottiste
nazionali ed internazionali.
Oggi Lei ha avviato un dialogo con gli ex-terroristi, tra i quali ci
sono alcuni dei protagonisti della strage di via Fani. Può dirci come è stato
possibile avviare un percorso di questo genere? Quali ostacoli ha dovuto
affrontare? Come è stato percepito questo fatto?
Il percorso per mio conto l’ho
iniziato nel 2011, quando, venuta a mancare anche la mia mamma, ho capito che
per affrontare in modo pieno la mia vita e per riappropriarmi del mio passato
familiare dovevo combattere “il mostro nero che turbava le mie notti”. Un
giorno ho capito che l’odio e la rabbia per chi mi aveva fatto del male stava
distruggendo la mia vita. Era giunto il momento di affrontare il mostro, dargli
sembianze umane e incontrarlo. E così ho iniziato un percorso fatto di incontri
protetti secondo i canoni della “Giustizia Riparativa” con ex brigatisti ma
anche ex terroristi, Vittime, membri della Società Civile, Garanti e Mediatori.
Un percorso non facile e il più delle volte lacerante e doloroso, ma erano lì
davanti a me e con loro potevo interloquire e chiedere: perché?. Avevo
finalmente degli uomini davanti che dovevano rispondere del male compiuto alla
mia famiglia e non più quel mostro. Gli ostacoli affrontati sono stati
tantissimi, perché la nostra società, nella sua piena accezione del termine,
ancora non è pronta ad accadimenti del genere: è più facile nascondere quanto
accaduto in quegli anni nel profondo dell’animo e far finta di niente.
L’esperienza trasmessa da “Il
libro dell’incontro” che cosa Le ha lasciato e cosa può offrire ai lettori
e ai cittadini?
L’esperienza del libro mi ha
lasciato la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta per riappropriarmi
dell’intera mia vicenda familiare, di vivere ora una memoria che non è più
congelata al momento tragico della morte di mio padre ma è una memoria vivente
che guarda al futuro, soprattutto al futuro che vedo negli occhi di mio figlio
e in quelli di altri giovani come lui. Leggere il libro dell’incontro può
essere un inizio per comprendere che, se si vuol cambiare, si può cambiare e si
può e si deve ricomporre le fratture con il passato pur rimanendo le
responsabilità soggettive del male fatto, ma si può andare avanti insieme per
il bene del nostro Paese.
Secondo Lei, il periodo del terrorismo, oggi, in Italia viene
ricordato adeguatamente? Lei ha creato l’Associazione Domenico Ricci, che si
occupa proprio di coltivare la memoria di ciò che è stato, soprattutto offrendo
testimonianze ai più giovani, ad esempio attraverso incontri nelle scuole. Che
cosa può dirci di questa esperienza?
La mia esperienza nelle scuole è
un’esperienza di trasmissione della memoria, un’esperienza di chi c’era e
ricorda bene quegli anni; oggi chi c’era ha la mente offuscata su quel periodo
e chi non c’era non ne sa assolutamente
nulla. Anche se oggi il linguaggio dei giovani è cambiato rispetto ad allora,
c’è la necessita che conoscano quegli anni perché essi non furono solo “di piombo”,
ma anche di grandi conquiste sociali e democratiche. Il rischio è che le future
generazioni abbiano un buco di memoria storica di non poco conto se non
trasmettiamo loro la Memoria.
Un “messaggio in bottiglia” per i lettori di Atmosfere Letterarie e il
nostro grazie per aver affrontato con noi un tema tanto delicato e importante…
Vorrei citare una frase di Paul
Boese: “Il perdono non cambia il passato, ma certamente ci aiuta a migliorare
il futuro!”
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