mercoledì 22 giugno 2016

Intervista a Vindice Lecis e recensione del romanzo "L'infiltrato" a cura di Daniele Cambiaso


Recensione – intervista curata da Daniele Cambiaso

Vindice Lecis, “L’infiltrato”, Nutrimenti, 2016, pp. 190



Ha indagato sulle vendette dell’immediato dopoguerra (La resa dei conti, 2003), si è confrontato con l’attentato al Migliore (Togliatti deve morire, 2005), con le trame occulte atlantiche e le crisi interne al partito (Da una parte della barricata, 2007) nonché col golpe Borghese (Golpe, 2011). È stato il primo “detective di partito” della narrativa italiana. Si chiama Antonio Sanna, nella finzione è stato membro autorevole dell’Ufficio Quadri del PCI, e alla sua quinta avventura si trova a dover affrontare una delle pagine più oscure e sanguinose della nostra storia più recente: il terrorismo brigatista degli anni Settanta.
Ne “L’infiltrato”, come nei romanzi precedenti della serie, realtà storica e finzione letteraria, appunto, si mescolano con straordinaria efficacia, raccontando un’operazione di infiltrazione delle Bierre da parte del PCI in accordo col reparto Antiterrorismo guidato da Carlo Alberto Dalla Chiesa. È una storia vista da una prospettiva particolare, tutta interna al PCI, filtrata attraverso ila narrazione delle vicende di Sanna, che segue l’operazione e tiene sotto controllo le strutture del partito nelle città “calde” degli anni di piombo, spostandosi da Roma a Genova e a Padova. Ne scaturisce un quadro efficace e ricco di sfaccettature, che evidenzia la lealtà istituzionale del PCI e la durezza del contrasto con la sinistra extra-parlamentare oltre che con le varie frazioni eversive. Una lotta senza esclusione di colpi, che troverà il suo culmine nell’uccisione dell’operaio genovese Guido Rossa, sancendo la definitiva spaccatura tra l’eversione e il mondo delle fabbriche. “L’infiltrato” ci racconta tutto questo e ci restituisce il senso e l’atmosfera di un momento storico delicatissimo, ad esempio riproponendo con scrupolosità filologica alcuni stralci dei documenti prodotti dalle Brigate Rosse oppure le analisi effettuate dai vertici del PCI. Questo aspetto storico non intacca la fluidità della storia, essendo diluito all’interno di un meccanismo narrativo sempre equilibrato, che mantiene alta la tensione in ogni sua pagina. L’apparente semplicità dello stile di Lecis, in realtà, è la cifra stilistica di un giornalista e di un narratore di razza, capace di rendere accessibile e avvincente per il pubblico una storia complessa e non semplice da raccontare. Così, ci si appassiona anche alle vicende dell’uomo Sanna, la cui vita è consacrata integralmente al partito con inflessibile dedizione ed è una scelta che lo induce a sacrificare ogni aspetto della propria esistenza: amicizie e legami sentimentali vengono turbati e, talvolta, schiacciati da questo impegno totale, come testimonia, ad esempio, il tormentato legame con Maria Pina che attraversa l’intero romanzo.
“L’infiltrato” è, dunque, un’avvincente storia di uomini e di idee e, in ultima analisi, memoria e rilettura di una stagione in cui le scelte politiche si potevano pagare col sangue.
“Atmosfere letterarie” ha il piacere di poter intervistare l’Autore…



Prima domanda, inevitabile: chi è Vindice Lecis? Raccontaci chi sei e come sei approdato alla narrativa. Chi sono i tuoi autori di riferimento?

“Giornalista da 35 anni con vari incarichi nei quotidiani locali del gruppo editoriale L’Espresso, attualmente nella sua Agenzia giornali locali. L’approdo alla narrativa? Domanda alla quale è difficile rispondere, mi viene da immaginare una sorta di confluenza creativa tra il lavoro giornalistico nello scandagliare o raccontare la realtà e la volontà di non rassegnarsi all’oblio riservato alle faticose vicende storiche. La narrativa non è però giornalismo con altri mezzi ma cosa del tutto diversa, dalla quale non si può pretendere di avere sempre risposte. La narrativa, il romanzo in particolare, lavora su interpretazioni, ricerca la verità, non si accontenta, apre scenari, offre squarci prima nascosti. Diceva Paco Taibo II che il romanzo appunto, serve per fare casino. Ecco, per me è così. A questo punto alla tua domanda sugli autori di riferimento è difficilissimo rispondere: adolescenza sul neorealismo italiano e sulla letteratura d’avventura unita alla lettura e allo studio di Antonio Gramsci che consente di comprendere la nazione, gli intellettuali, le forze motrici delle trasformazioni”. 


Come nasce il personaggio di Antonio Sanna e la scelta di raccontare la fasi cruciali della nostra Storia più recente attraverso il suo sguardo? Ti sei ispirato a funzionari del PCI realmente esistiti?

“Il partito comunista italiano per il suo essere stato il perno della lotta al fascismo e della costruzione della democrazia repubblicana è stato, ed è ancora per chi vuole capire, una vera miniera di storie, di esperienze, alcune molto dolorose, di speranze, di battaglie per l’emancipazione di uomini e donne e delle cosiddette classi subalterne. La sua ossatura, fatta di iscritti e quadri, è uno spaccato di decenni di storia italiana. Quel partito è stato una scuola di alfabetizzazione democratica che aveva al centro del suo programma l’avanzamento delle libertà e della giustizia sociale. Queste politiche avanzavano sulle spalle di uomini e donne che formavano la classe dirigente del Pci e che mettevano la propria vita al servizio di quell’ideale. Così era stato durante la notte del ventennio fascista e così accadde durante la storia repubblicana. Parlare di quelle vicende concrete e vere, elidendo ogni intento moralistico-pedagogico, mi ha consentito di parlare delle zone d’ombra dell’Italia. Antonio Sanna, personaggio di fantasia, era il prototipo di quel tipo di funzionario comunista: stipendi da fame, vita privata annullata in quella del partito, sacrificio in nome dell’interesse supremo. Che a quel tempo veniva vissuto con paziente convinzione perché l’interesse del partito e quello nazionale, secondo gli insegnamenti da Togliatti a Berlinguer, coincidevano”.


Quali sono le difficoltà nel creare romanzi di questo genere? Ad esempio, sottotraccia si avverte nei tuoi libri un lavoro di ricerca e di vaglio delle fonti non indifferente: come coniughi questa attività di documentazione con trame avvincenti?

“Non mi accontento della storia ufficiale né delle amnesie. Ci sono zone d’ombra ancora non pienamente illuminate e snodi della nostra italiana non considerati patrimonio collettivo. Esempio: le ragioni della rottura dell’unità antifascista del 1947, le trame attorno all’attentato a Togliatti dell’anno successivo, la nascita di Gladio in Italia nel contesto europeo e la sua effettiva pericolosità, le trame di pezzi dello Stato nel fallito golpe Borghese, l’uso dello stragismo neofascista e delle Br per bloccare l’avanzamento del Paese. Il romanzo racconta quelle vicende, ma la ricerca è basilare, come la ricostruzione d’epoca che deve essere accurata”.


La storia dell’infiltrato è una storia vera e poco nota. Perché hai voluto portarla al centro del tuo romanzo? C’è qualcosa che non ci hai rivelato su questo interessantissimo episodio?

“Una storia incredibile. Il Pci e Dalla Chiesa si accordarono per infiltrare un militante comunista in una colonna brigatista. Un lavoro difficilissimo, pericoloso che solo un uomo animato da una incrollabile fede democratica poteva portare a termine. La storia è vera ed è poco nota. Il romanzo mi consente di tratteggiare un periodo tremendo per l’Italia, dall’omicidio Moro e della sua scorta all’assassinio dell’operaio genovese Guido Rossa. Storie lontane, forse, ma la conoscenza di quei fatti la considero basilare. Al terribile stragismo di impronta fascista (Piazza Fontana, piazza della Loggia, treno Italicum e nel 1980 Bologna) si affiancò con modi diversi il terrorismo brigatista: dal 1974 al 1988 i terroristi uccisero 86 persone e ne ferirono o rapirono un numero imprecisato. Uno dei motivi del libro è anche per dimostrare che le Br non erano in nessun modo parte dell’album di famiglia del Pci”.


Secondo te, quanti e quali punti oscuri restano da chiarire?

“Credo che le Br della stagione di Moretti furono eterodirette, indirizzate, oppure si lasciarono volentieri strumentalizzare purché si riconoscesse loro un ruolo politico. Bisogna inquadrare quegli anni in uno scenario internazionale nel quale l’Italia, più di oggi, era un paese a sovranità limitata da parte degli Usa. L’eliminazione di Moro andava in quella direzione. E con il suo rapimento e omicidio fu bloccato l’avvicinamento del Pci nel governo del Paese. Tutto questo rispondeva a una logica”


Esiste anche un tuo secondo filone narrativo che riguarda la storia più antica della Sardegna. Ce ne parli?

“I miei romanzi sulla storia antica della Sardegna rifuggono dalla mitizzazione. Ma consentono a un pubblico vasto di conoscere vicende dimenticate colpevolmente e che hanno una qualche grandezza. Nelle Pietre di Nur (2011) racconto l’epopea dei popoli nuragici che costruirono una civiltà fenomenale così particolare nel Mediterraneo. Nella trilogia medievale (Buiakesos del 2012, Il condaghe segreto del 2013 e Judikes del 2014 nrd) rimetto al centro l’originalissima struttura dei giudicati, i regni sardi che vanno dal X al XIV secolo. Infine con Rapidum (2015) ricostruisco la straordinaria vicenda di un’unità militare romana formata esclusivamente da sardi spedita in Africa dall’imperatore Adriano”.


Puoi rivelarci qualcosa sui tuoi progetti futuri? Ritroveremo Antonio Sanna?

“Antonio Sanna è nato nel 1920, invecchia con la Repubblica, le sue forze declinano. Eppure qualcosa ancora da fare ce l’ha ancora”.


Un tuo messaggio in bottiglia per i lettori di “Atmosfere letterarie” e il nostro grazie per essere stato con noi…

“Grazie a voi, anzitutto. Un messaggio in bottiglia è sempre difficile. Dico solo che con la ricerca e la letteratura si può mettere un argine al dilagante revisionismo storico che livella le responsabilità e occulta le cause degli eventi.”

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