martedì 3 maggio 2016

Recensione "Il libro dell'incontro" e intervista a Giovanni Ricci a cura di Daniele Cambiaso

“Il libro dell’incontro”
Recensione -  intervista

Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato (a cura di), Il libro dell’incontro – Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Il Saggiatore, 2015, pp. 466



Ci sono libri belli, importanti, e ce ne sono alcuni addirittura necessari. È il caso de “Il libro dell’incontro”, che racconta un punto di svolta fondamentale nella nostra percezione degli “anni di piombo”. Ancora oggi a quel periodo sono dedicati saggi, film, documentari, trasmissioni televisive e approfondimenti giornalistici, e si può dire che sia una pagina non conclusa della storia, sia per il permanere di vaste zone zona d’ombra su alcune delle sue pagine più drammatiche, sia per il fatto che molti dei suoi protagonisti sono ancora in vita e portano dentro di sé il peso di quell’esperienza. E questo avviene tanto per le vittime e le loro famiglie, quanto per chi ha premuto materialmente il grilletto o ha comunque militato nei gruppi eversivi. Vittime e carnefici, si potrebbe dire in un’estrema e rozza semplificazione: due gruppi che, nell’immaginario collettivo, hanno incrociato drammaticamente la propria esistenza e parrebbero destinati a non incontrarsi mai più, portando ognuno il proprio fardello interiore.
Non solo. A tanti anni di distanza, nella nostra società si percepiscono palpabilmente due spinte che potremmo definire uguali e contrarie: da un lato, il desiderio mai sopito di conoscenza e di approdare a verità definitive su un periodo tanto complesso e tormentato, dall’altro un progressivo oblio, una tendenza alla dimenticanza, alla comoda “archiviazione”, soprattutto nelle generazioni nate dopo quegli anni.
Ecco, quindi, la necessità e l’importanza di questo testo. “Il libro dell’incontro” racconta, infatti, di un nuovo ritrovarsi tra alcune vittime e una parte dei responsabili della lotta armata, avvenuto con l’aiuto di tre mediatori: il padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudio Mazzuccato, che sono anche i curatori di questo volume, che ne racconta e ricostruisce il difficile percorso. È un testo denso, ricco soprattutto a livello emotivo: la parte introduttiva è una sorta di “diario di bordo”, poi si lascia spazio alle “voci” dei protagonisti, volutamente anonime, mescolate. A volte sono pensieri brevissimi, ma ogni singola parola è intensa, sofferta, e penetra nell’anima ad aprire spazi di riflessione e ripensamento. A chiudere, alcuni interventi tra i quali, interessantissimo, il capitolo dedicato ai “Primi ponti di dialogo”, scritto da Franco Bonisoli e Agnese Moro.



“Il libro dell’incontro” è indubbiamente un volume che arricchisce moltissimo a livello umano, offre un contributo importantissimo a livello storico e civico, nel senso più nobile e pregnante del termine, essendo portatore di un sofferto messaggio di dialogo che trae esempio dal Sud Africa del post-apartheid e opera in direzione della “ricomposizione della frattura”. Perché la giustizia più autentica deve cercare di sanare le ferite e non può e non deve limitarsi alla mera applicazione di una pena, nella speranza di riuscire ad avere un passato e, quindi, un futuro realmente condivisi.
“Atmosfere Letterarie” ha il privilegio di poter dialogare su “Il libro dell’incontro” con uno dei protagonisti di questa iniziativa, il Dottor Giovanni Ricci, figlio dell’Appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci, Medaglia d’Oro al Valor Civile, caduto a Roma, in via Fani, il 16 marzo 1978, quando venne rapito l’On. Aldo Moro.




Dottor Ricci, ci parli un po’ di sé…

Nasco a Roma il 27 aprile 1966. Figlio di Domenico e Maria Laura Rocchetti. Ho un fratello di nome Paolo, più piccolo, ma è lui il vero saggio della mia famiglia.
La mia vita subisce un terribile destino, quando, felice 11enne, trucidano mio padre a via Fani il 16 marzo 1978. Un destino che segnerà per sempre la mia vita e quella della mia famiglia.
Passo la mia adolescenza e il mio primo periodo da “uomo” con tanta rabbia in corpo per quello che “mi ha reso diverso dagli amici e dai compagni di vita e lavoro”.
Voglio capire il perché e studio Sociologia e Criminologia e alla fine capisco. Capisco che l’odio ti rende sempre più cieco e allora, dopo la nascita di Domenico, mio figlio, ecco la decisione che solo “L’Incontro” ti potrebbe rendere libero. Conoscere per pacificarsi e riconciliarsi.
Certamente la mia ricerca della verità su quanto accadde a mio padre va avanti, è una strada diversa ma compatibile con la prima perché anche questa porta verso una tranquillità dell’animo che debbo a mio figlio, ai figli degli ex ed alle future generazioni: ma soprattutto lo debbo alla mia mamma Maria Laura che ora non c’è più, fiaccata dalle sofferenze e dal dolore, ma che è stata la persona che mi ha indicato “La via della Pace”.

Veniamo proprio dalla figura di Domenico Ricci. Chi era e che ricordo conserva di Lui?

Per prima cosa voglio dire che Domenico Ricci era un papà, il mio papà. Un uomo unico di cui conservo ricordi netti ed indelebili. Un uomo che amava la sua famiglia ed il prossimo. Ecco, questo terrei che fosse preso in grande considerazione: dietro la divisa di Carabiniere c’era un uomo con tutte le sue peculiarità, ma anche i suoi difetti.
Domenico Ricci nasce il 18 settembre 1934, a Staffolo piccolo Comune in provincia di Ancona, un paese dove all’alternativa di una vita lavorativa nei campi si poteva optare per l’arruolamento nelle Forze Armate o di Polizia e mio padre optò proprio per quest’ultima, avendo già il proprio fratello Giuseppe arruolato nell’Arma dei Carabinieri. Così nel 1954 si arruola e frequenta la Scuola Allievi Carabinieri a Torino. Dopo 12 mesi viene inviato a Roma per l’elevata capacità nella guida di motociclette e auto ed inviato al nucleo Radiomobile della Capitale. Qui viene notato per la sue capacità nella “guida veloce” e già nel 1958 assegnato all’Onorevole Aldo Moro, allora Ministro della Pubblica Istruzione. Promosso al grado di appuntato nel 1965 era per anzianità di servizio con il Presidente Moro il più veterano della scorta.



Cosa ricorda di quel drammatico 16 marzo e dei giorni che seguirono? Conosceva anche gli altri uomini della scorta?

Quel 16 marzo del 1978 è impresso indelebilmente nella mia mente, avevo quasi 12 anni e quella mattina eravamo in casa io e mia mamma. A causa delle poche aule disponibili nelle scuole medie e superiori si facevano i doppi turni e io dopo tre giorni di mattina quel giovedì sarei entrato alle 13.
Alle 9,30 circa una telefonata di una conoscente avvertiva mia madre che la radio aveva dato notizie circa qualcosa accaduto all’On. Moro e alla sua scorta, chiedendo contestualmente notizie se mio padre fosse in servizio. Immediatamente accendemmo anche noi la nostra radio e la televisione e trapelarono le prime frammentarie notizie; intanto la nostra casa cominciò a riempirsi di gente e le lacrime scorrevano a fiotti su tutti i visi. C’era una tenue speranza, perché i media parlarono di un agente ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma. Alle 13 arrivò un generale dei Carabinieri che purtroppo confermava che tutti i componenti della scorta erano morti. La disperazione prese il posto dell’angoscia e il dolore ci lacerò tutti.

Lo Stato, secondo Lei, è stato vicino alle famiglie delle vittime? E, quando lo ha fatto, lo ha fatto nel modo giusto?

Lo Stato ci è stato vicino i primi tempi, ma poi, come succede inevitabilmente anche per i nostri cari che vengono a mancare, il tempo allontana. Si pensi che la prima protolegislazione sulle vittime del terrorismo è datata 1997 e la legge che istituisce “Norme in favore delle Vittime del Terrorismo e delle Stragi”, la legge 206, è del 2004. Ricordo comunque un momento per me felice quando l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini ci fece avere per la Befana del 1980 un intero sacco di giocattoli. Pertini era un Presidente che sapeva capire, nonostante il ruolo istituzionale, l’importanza della famiglia e lui ci fu vicino come un papà. L’Arma dei Carabinieri, invece, ha mantenuto un contatto costante con la nostra famiglia, ci è sempre stata accanto.

Sull’agguato di via Fani e sulla prigionia di Moro persistono molti lati oscuri o, comunque, non del tutto chiariti. Che idea si è fatta della vicenda? Si riuscirà mai a giungere a una ricostruzione attendibile di ciò che è accaduto?

Sul cosiddetto “Affaire Moro”  si è scritto tanto, anzi tantissimo; sei processi, due Commissioni bicamerali d’inchiesta (di cui una in atto oggi) e due Commissioni Stragi non sono bastati a chiarire tutto. Ci sono ancora dei punti oscuri. Io, per mio conto, sono sicuro che la verità sia nota al 90% ma ci sono ancora dei punti bui legati ad alcune reticenze brigatiste e alle lacune delle varie inchieste giudiziarie. Poche verità mancanti che potrebbero consegnare alla Storia quella vicenda, che invece ancora oggi viene alimentata dai tanti misteri che puntualmente compaiono o dalle varie teorie complottiste nazionali ed internazionali.



Oggi Lei ha avviato un dialogo con gli ex-terroristi, tra i quali ci sono alcuni dei protagonisti della strage di via Fani. Può dirci come è stato possibile avviare un percorso di questo genere? Quali ostacoli ha dovuto affrontare? Come è stato percepito questo fatto?

Il percorso per mio conto l’ho iniziato nel 2011, quando, venuta a mancare anche la mia mamma, ho capito che per affrontare in modo pieno la mia vita e per riappropriarmi del mio passato familiare dovevo combattere “il mostro nero che turbava le mie notti”. Un giorno ho capito che l’odio e la rabbia per chi mi aveva fatto del male stava distruggendo la mia vita. Era giunto il momento di affrontare il mostro, dargli sembianze umane e incontrarlo. E così ho iniziato un percorso fatto di incontri protetti secondo i canoni della “Giustizia Riparativa” con ex brigatisti ma anche ex terroristi, Vittime, membri della Società Civile, Garanti e Mediatori. Un percorso non facile e il più delle volte lacerante e doloroso, ma erano lì davanti a me e con loro potevo interloquire e chiedere: perché?. Avevo finalmente degli uomini davanti che dovevano rispondere del male compiuto alla mia famiglia e non più quel mostro. Gli ostacoli affrontati sono stati tantissimi, perché la nostra società, nella sua piena accezione del termine, ancora non è pronta ad accadimenti del genere: è più facile nascondere quanto accaduto in quegli anni nel profondo dell’animo e far finta di niente.

L’esperienza trasmessa da “Il libro dell’incontro” che cosa Le ha lasciato e cosa può offrire ai lettori e ai cittadini?

L’esperienza del libro mi ha lasciato la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta per riappropriarmi dell’intera mia vicenda familiare, di vivere ora una memoria che non è più congelata al momento tragico della morte di mio padre ma è una memoria vivente che guarda al futuro, soprattutto al futuro che vedo negli occhi di mio figlio e in quelli di altri giovani come lui. Leggere il libro dell’incontro può essere un inizio per comprendere che, se si vuol cambiare, si può cambiare e si può e si deve ricomporre le fratture con il passato pur rimanendo le responsabilità soggettive del male fatto, ma si può andare avanti insieme per il bene del nostro Paese.

Secondo Lei, il periodo del terrorismo, oggi, in Italia viene ricordato adeguatamente? Lei ha creato l’Associazione Domenico Ricci, che si occupa proprio di coltivare la memoria di ciò che è stato, soprattutto offrendo testimonianze ai più giovani, ad esempio attraverso incontri nelle scuole. Che cosa può dirci di questa esperienza?

La mia esperienza nelle scuole è un’esperienza di trasmissione della memoria, un’esperienza di chi c’era e ricorda bene quegli anni; oggi chi c’era ha la mente offuscata su quel periodo e chi non  c’era non ne sa assolutamente nulla. Anche se oggi il linguaggio dei giovani è cambiato rispetto ad allora, c’è la necessita che conoscano quegli anni perché essi non furono solo “di piombo”, ma anche di grandi conquiste sociali e democratiche. Il rischio è che le future generazioni abbiano un buco di memoria storica di non poco conto se non trasmettiamo loro la Memoria.

Un “messaggio in bottiglia” per i lettori di Atmosfere Letterarie e il nostro grazie per aver affrontato con noi un tema tanto delicato e importante…


Vorrei citare una frase di Paul Boese: “Il perdono non cambia il passato, ma certamente ci aiuta a migliorare il futuro!”

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